Le parole dell'inviata di guerra e direttrice di 'Radio Bullets' in occasione della serata di chiusura della decima edizione della manifestazione di Leali delle Notizie
Festival del Giornalismo, l’editoriale di Barbara Schiavulli

Non so se sia veramente andata così. Diciamo è che è così che me la immagino. Luca Perrino e Cristina Visintini e magari qualcun altro degli amici davanti a un bicchiere di vino: che ci fosse del vino, questa è l’unica certezza matematica che ho in questa storia.
Due amici, dunque, due giornalisti che parlano, che si stimano, che immaginano un festival del giornalismo a Ronchi dei Legionari, un piccolo paesino di 12 mila abitanti.
Magari è una cosa su cui ci hanno ragionato a lungo, forse è stato semplicemente il passaggio di una stella cadente. Forse erano rimasti impressionati dall’ennesimo giornalista ucciso mentre faceva il suo lavoro. Non importa era, comunque, una follia a pensarci a mente lucida. Un festival? Servono soldi, persone, relatori, gente che aiuta. Serve un filo conduttore.
Da quella sera un po’ fredda, magari d’inverno, o forse d’estate, in un salotto un po’ scuro o forse troppo luminoso, sono trascorsi 10 anni da quando il primo Festival del Giornalismo de Leali delle Notizie, è diventato una tradizione attesa ogni anno dall’ambiente giornalistico e da quell’opinione pubblica che dimostra con la sua regolare presenza, che questo mestiere si può fare ancora con amore, passione e rispetto di quelli che sono sempre stati i nostri unici editori: chi ci legge, chi ci guarda, ci ascolta.
In questi dieci anni, sono passati centinaia di colleghi e colleghe e amici e amiche che hanno raccontato le loro storie, che hanno acceso luci su crisi dimenticate, su crimini efferati, storie di fallimenti e di successi. Persone note e meno note, persone anziane e giovanissimi, competenti e visionarie.
Persone che non sono alla ribalta per il numero di follower, ma per quello che hanno scelto di fare. Persone che hanno messo a nudo le loro vicende, cosa significa resistere al potere, alla politica malsana, alla criminalità.
Storie che ci raccontano 10 anni di un mondo che è cambiato, un mondo precipitato nella guerra, nella pandemia, nel cambiamento climatico.
Dove chi racconta diventa vittima, dove le vittime vengono dimenticate, dove noi tutto questo lo contrastiamo, qui, oggi, insieme, ma anche ogni giorno nelle nostre piccole vite, fatte di computer e taccuini, di viaggi in città o dall’altra parte del mondo e di quella maledetta fortuna di amare questo mestiere tanto da essere disposti a sacrificarsi per raccontare.
Non mi sentirete dire che il giornalismo è un vanto nel nostro Paese. Siamo in fondo alla classifica della libertà di stampa, i giovani restano giovani giornalisti fino a 60 anni e pagati, quando vengono pagati, come se ne avessero 18. Si è in balia degli editori, non degli eventi, più della pubblicità che delle storie, più degli interessi del potere che delle società civili. Ma chi è venuto qui in questi anni, non sono persone a caso: il Festival del Giornalismo de Leali, di cui mi ritengo un cuscino di quel salotto dove Luca e Cristina hanno avuto l’idea, sono state scelte.
In questi giorni, in tutti questi anni, si sono concentrate persone che, nonostante i caratteri difficili, le vite a volte complicate, credono fortemente in questo lavoro.
So con certezza che la persona che era prima di me e quella che ci sarà tra poco e quelle con cui ho pranzato o quella con la quale ho scambiato uno sguardo o che ho ascoltato in questi giorni, sono come me: non matte come me, impegnate come me.
Persone che hanno un amore sviscerato per il bene comune, per l’indipendenza, per il mondo, per la libertà non come è in questo momento, ma come potrebbe essere. E questo ci lega.
Mi dicono che racconto storie di posti lontani e tristi, ma è proprio perché spero che tutti possano avere gli stessi diritti che io mi tengo stretta, che faccio questo mestiere, che facciamo questo mestiere, perché le persone più fragili devono essere riconosciute e avere giustizia.
Qui nel festival ci incontriamo, ci confrontiamo e da questo nascono idee.
Cristina non c’è in questo decimo anniversario. Sempre che non sia vero che le persone che abbiamo amato, non continuino a vivere dentro di noi anche quando non ci sono più. Perché, se così fosse lei, è qui più che mai. Insieme alla sua idea che portano avanti, Luca, Giulia e tutte le persone che lavorano al festival. Insieme a Dafne Caruana Galizia, ad Andrea Rocchelli, a Giulio Regeni, insieme ad Antonio Russo, Ilaria Alpi e tutte quelle persone alle quali dedichiamo il nostro lavoro di ogni giorno.
Chi ci dice che non sono qui, se sono nei nostri pensieri e galleggiano sotto la nostra pelle ricordandoci che mollare non è un’opzione?
Penso alle colleghe afghane che non possono più scrivere, penso ai dissidenti in Africa, a quelli in Sudamerica, in Myanmar, ma non c’è bisogno di andare lontano quando si tratta di giornalisti in pericolo, di società allo sbaraglio, di dittature alle porte. Di diritti perduti. L’ho visto in Afghanistan, un intero genere perdere tutto in 24 ore e non perché i talebani sono stati bravi, è perché noi Occidente siamo stati cattivi. Viviamo nel pieno di un genocidio. E non siamo stati in grado nemmeno di raccontarlo a dovere.
Dobbiamo stare più attenti e più in allerta, perché è un attimo distrarsi e ritrovarci con un diritto in meno. O migliaia di persone in meno.
Ma qui siamo compatti. Non importa che ci si occupi di criminalità o politica. Non importa che si parli di clima o sport. C’è un’atmosfera magica in questi giorni e vi assicuro che non è il vino, perché non bevo, anche se sembra, un’atmosfera di denuncia ma anche di rilassatezza, di abbracci tra colleghi sconosciuti ma che sono consapevoli di essere tutti dalla stessa parte.
Ci sfioriamo e ci capiamo, affetti tutti dalla stessa terribile malattia, quella di aver scelto di essere parte della differenza e della libertà non solo per noi e per voi, ma per il futuro che ci aspetta.